Labirinto

mercoledì 7 marzo 2018

La cattedrale di San Martino e Il Cristo acheropito



All’interno della Cattedrale di San Martino , è presente il Volto Santo, inserito dentro un tempietto realizzato da Matteo Civitali negli anni 1482-1484, in sostituzione dell’antica costruzione già esistente nel 1107.
Si tratta di un “Crocifisso” molto particolare; Il Cristo effigiato è vivo e con gli occhi aperti e veste una tunica legata ai fianchi con un cordone. Secondo la tradizione il Crocifisso sarebbe giunto il "Venerdì Santo" del 782 d.C., nel porto dell'antica città di Luni a bordo di una nave senza nocchiero. Autore dell'opera sarebbe il discepolo di Gesù, Nicodemo. Tranne il volto, realizzato invece dagli angeli. Si tratterebbe quindi di un’immagine "acheropita", ovvero "non fatta da mano umana". Come la "Veronica" oppure il "Velo di Manoppello". Le moderne analisi hanno datato il Crocifisso a un periodo compreso tra l'XI ed il XII secolo, lavoro ascrivibile a un maestro lombardo. 

Il fascino che scaturisce dal crocifisso colpisce il visitatore in maniera potente: innanzitutto per le dimensioni: un’altezza di circa tre metri e una larghezza di due metri e mezzo. Il corpo del Cristo è ricoperto da una lunga veste a pieghe che conferisce all’immagine un regale aspetto, completamente diverso dalla tradizione iconografica, che raffigura Gesù, sulla croce nudo, vestito soltanto del perizoma. L’elemento che cattura il visitatore in maniera forte, incisiva è sicuramente la raffigurazione del volto, l’incarnato è roseo, labbra rosse, chioma e barba corvini; gli occhi sono aperti, espressivi, profondi, severi. Non è l’immagine di un moribondo ma bensì l’immagine del trionfo sulla morte, la sua veste non è quella di un condannato, la sua veste è il “columbium” la veste dei sacerdoti, la veste del Sommo Sacerdote.
La "leggenda" del Volto Santo, si perde nell’antichità infatti si narra che il crocifisso venne scolpito da Nicodemo, il "discepolo occulto" di Gesù, con l'aiuto degli angeli per l'esecuzione del viso, e rimane nascosto per più di settecento anni a Ramla, una città della Palestina. Qui viene ritrovato, dietro ispirazione di un angelo apparsogli in sogno, da Gualfredo, vescovo subalpino pellegrino in Terra Santa col suo séguito, che lo reca al porto di Ioppe, l'odierna Giaffa, dove lo carica su una nave, che sigilla con bitume ed affida al mare priva di equipaggio, pregando la divina provvidenza che lo conduca in terre cristiane. La nave, dopo avere attraversato miracolosamente gran parte del Mediterraneo, si ferma al largo delle coste di Luni, non lontano da Bocca di Magra. I lunensi esperti marinai, dediti al commercio marittimo, ma anche alla pirateria calano in mare le barche, per predare quella nave incustodita; ma inutilmente, perché, ad ogni tentativo di raggiungerla, la nave riprende il largo allontanandosi da loro.
Frattanto, a Lucca, un angelo appare in sogno al vescovo, il beato Giovanni I, rivelandogli l'arrivo a Luni, del Volto Santo e comandandogli di recarsi là col clero e i maggiori del popolo, per prenderlo e portarlo a Lucca. Giunto al porto di Luni col suo séguito, il vescovo vede i lunensi che di nuovo tentano con remi e vele di raggiungere la nave, e questa che si allontana sottraendosi ai loro arpioni. Il beato Giovanni fa cenno ai marinai di fermarsi, ed esorta tutti a chiedere l'aiuto di Dio; a questo punto, la nave si dirige spontaneamente verso di lui, che apre i boccaporti ed entra con i suoi nella stiva, dove trovano il Volto Santo, alla vista del quale tutti quanti scoppiano in lacrime di gioia ed intonano il Gloria in excelsis.


Nacque poi una disputa fra i Lucchesi e i Lunensi su quale delle due città abbia diritto a custodire il simulacro. Prima il vescovo Giovanni estrae dall'interno della statua alcune delle reliquie in essa contenute, fra cui una delle due ampolle del sangue di Gesù Cristo quella oggi a Sarzana, l'altra è quella attualmente venerata a Lucca in S. Frediano e le consegna al vescovo di Luni; poi si ricorre alla celeberrima "prova dei giovenchi indomiti": il Volto Santo viene issato su un carro riccamente addobbato, a cui vengono attaccati due vitelli non ancora aggiogati. Lasciati liberi di andare, gli animali si dirigono verso Lucca: di fronte al risultato di questo "giudizio di Dio", i lunensi se ne tornano alle loro case, mentre il vescovo Giovanni sale sul carro, che, attorniato dagli altri lucchesi, giunge trionfalmente a Lucca sul far della sera. Correva l'anno 782, secondo del regno comune di Carlo Magno e Pipino II.
Lentamente il culto e l'immagine del Volto Santo inizió a diffondersi anche lontano dalla città di Lucca grazie ai pellegrini e ai mercanti lucchesi, che viaggiando riuscirono a far conoscere la sua magnificenza a molti popoli. Sempre in questo periodo iniziarono le prime raffigurazioni della leggenda affrescate nelle cappelle delle famiglie nobili della città, ad esempio nella cappella della villa dei Buonvisi che si trova presso Monte San Quirico; anche nelle chiese iniziarono i primi affreschi e uno di essi lo possiamo trovare all'interno della Chiesa di San Frediano, databile intorno al 1508-09, perché secondo la leggenda la prima dimora del Volto Santo fu proprio questa. Dopo il 1655, anno della solenne coronazione della Sacra immagine, il Volto Santo si diffuse nelle chiese del Contado lucchese, nella Pieve di Santa Maria Assunta a Diecimo troviamo una di queste splendide rappresentazioni del Volto Santo. 


Parallelamente alle raffigurazioni delle chiese aumentarono gli affreschi all'interno delle cappelle private,  inoltre l'immagine del Volto Santo veniva incisa anche sulle monete lucchesi. Le immagini del Volto Santo erano poste sia entro la cerchia muraria sia nel contado o nelle antiche vicarie. All'interno della cerchia muraria possiamo trovare delle immagini del Volto Santo su almeno due porte (Porta San Pietro e Porta San donato) e sulla facciata del Palazzo Mazzarosa. Al suo esterno invece sono particolarmente significative le immagini che troviamo a Borgo Giannotti (1850) e a Montignoso (1631).



lunedì 5 marzo 2018

La Santa Casa di Nazareth in S.Maria Corte Orlandini a Lucca



La Santa Cappella fu realizzata nel 1661 a Lucca, nella chiesa di S.Maria Corte Orlandini, per volere del Padre Antonio Grammatica. Questo edificio, posto sul lato nord della chiesa di S.Maria è la copia esatta della Santa Casa di Nazareth venerata a Loreto.
La cappella rispecchia fedelmente la Santa Cappella di Loreto, nelle sue dimensioni ml.4,10 di larghezza ml.9,52 di lunghezza, nella tessitura muraria e negli affreschi interni, mentre esternamente è stata realizzata in maniera completamente diversa dall’originale, poiché la S.Casa di Loreto risulta avere un apparato esterno interamente realizzato con preziosi marmi, mentre in quella di Lucca  solo tre lati hanno effetto marmoreo e solo il fronte è rivestito in marmo bianco di Carrara venato, con lesene grigio scuro che sorreggono un cartiglio su sfondo nero con la scritta: Forma Domus in qua verbum caro factum est. La finestra dell’Angelo, posta sul fronte è leggermente decentrata sulla sinistra, ed è stata riposizionata in maniera simmetrica rispetto gli spigoli per creare una metà cieca. Il soprastante architrave di marmo grigio, si raccorda con le lesene per tutto il perimetro del fronte, donando eleganza e semplicità alla struttura, sulle restanti pareti non sono presenti decorazioni ad eccezione delle modanature dei portaletti e della cornice superiore.
L’assenza di decorazioni, permetteva di utilizzare come paramenti liturgici dei teli in damasco, color cremisi, che impreziosiva la santa Casa durante il periodo di Natale, tale notizia viene anche riportata in un documento del 1684, dove erano minuziosamente descritti l’aspetto, le dimensioni e si ricordano i due donatori anonimi e la loro volontà riguardo all’uso dei paramenti.
Gli interni furono realizzati con un accurato certosino lavoro artigianale, in modo da ricreare le esatte dimensioni e andamenti dei mattoni e delle pietre, allo stesso modo furono eseguiti gli affreschi del sacello dal pittore veneziano Giovanni Bellini, nella seconda metà del 600, come risulta dagli atti dell’Archivio Cerù. Negli affreschi sono raffigurate: la Vergine con due teste di cherubini, un’icona tipo bizantina con Maria Santissima in trono; Santa Caterina d’Alessandria e l’apostolo Paolo. Viene anche fedelmente riprodotto un piccolo tabernacolo, dove erano conservate le scodelle e le suppellettili che sarebbero servite alla Santa Famiglia.
Quando a Loreto rivestirono di marmo la Santa Casa, aprirono sul davanti due accessi simmetrici e chiusero quella che era stata l’antica porta, lasciando a vista l’architrave di legno, anche a Lucca fu riprodotto questo particolare e i religiosi con scrupolo rispettarono questo particolare architettonico. In una nicchia ricca di stelle, nella Parete centrale, sotto il simbolo dello Spirito Santo è posta la statua della Madonna rivestita da una ricca dalmatica.
La scultura della Vergine in cedro fu commissionata a Roma da Padre Carlantonio e fu realizzata simile a quella di Loreto. L’effige benedetta dal pontefice Alessandro VII, arrivò a Lucca il 12 agosto 1662 e il giorno successivo fu portata in Santa Maria Corte Orlandini con una solenne processione, dove parteciparono le massime autorità della Repubblica, una relazione dettagliata dell’evento è riportata in un manoscritto, delle misure cm.15x22x1,6, conservato nella Biblioteca Statale di Lucca  al n.2045, recante sul dorso la scritta: memorie istoriche del Manfredi.

Esterno della Santa Casa 


Particolare del mattone proveniente dalla S.Casa di Loreto 

Nel 1921 l’originale nella Casa di Loreto venne distrutta da un furioso incendio e fu presa copia di quella di Lucca, per realizzare una nuova statua ad opera di Leopoldo Calani, che la scolpì nello stesso anno, di conseguenza dopo il disastroso incendio di Loreto, la statua della Vergine di Lucca è tra le più antiche icone lauretane esistenti.


La realizzazione della Santa Cappella è stata un faro di pura devozione mariana per la città di Lucca, che ha accentrato attraverso i riti celebrativi alla Madonna, una consapevole pietà intrisa di memoria storica per circa tre secoli. Intensi i momenti, in particolare durante il colera del 1855, che stava seminando morte e paura, il popolo lucchese, nei giorni 3-4-5 Agosto, chiese protezione alla Vergine Lauretana e l’anno dopo in segno di ringraziamento per lo scampato pericolo, furono fatti pellegrinaggi e intensi tridui di preghiera. Nel 1867, con la nascita di un forte anticlericalismo nella provincia, ci furono disordini che portarono alla chiusura dalla Santa Casa da parte del potere politico del senato, con l’emanazione di norme che portarono alla soppressione degli istituti religiosi, con pesanti requisizioni che portarono alle casse dello stato molte ricchezze. Nel 1894, in un clima più sereno, ci fu il sesto centenario della traslazione della S. Casa e furono fatti pellegrinaggi con liturgie intense, accompagnate dalla musica del Maestro Puccini diretta dai maestri Pellicci, Doroni e Tramonti.
Il Capitolo Vaticano, con decreto del cardinale Merry del Val, il 12 marzo 1924 fregiò la statua della Beatissima Vergine Lauretana della corona aurea. Con rito solenne il 10 Dicembre 1925 fu fatta la celebrazione dell’incoronazione della Vergine.
All’esterno della santa Cappella c’è un grande affresco di ml.3.90x5.00 realizzato vent’anni dopo la costruzione dell’edificio, che raffigura la traslazione della Santa Casa, realizzato dai pittori lucchesi Filippo Gherardi il Sancasciani e Giovanni Coli, anche se il contributo apportato da quest’ultimo fu minimo a causa della morte prematura.
La Santa Casa è ricca di arredo tessile, drappi damascati con lussuose decorazioni in particolare è presente un palliotto in corallo ricamato con fiori e grappoli d’uva coronati dal monogramma mariano  e donato dalla nobildonna Lavinia Orsucci nel 1818. Dinanzi alla statua della Vergine Lauretana, è presente una rara ed elaborata lampada in argento, di scuola fiamminga, commissionata da Augustino Santini e realizzata da Bernardo Pitterman.

 Bibliografia
L’ornamento Marmoreo della Santa Cappella di Loreto Delegazione Pontificia per il Santuario della Santa Casa di Loreto Edizione a cura di Floriano Grimaldi Settembre 1999
Vittorio Pascucci L’allusivo iconografico in Santa Maria Corteorlandini Editore S.Marco Ottobre 1996



lunedì 19 febbraio 2018

Un pezzo della colonna della flagellazione a Lucca


La colonna della Flagellazione a S.Prassede a Roma 
La reliquia più importante legata alla flagellazione è costituita dalla colonna conservata nella chiesa di Santa Prassede a Roma: posta all’interno di un’edicola di bronzo risalente alla fine del XIX secolo, fu trasferita da Gerusalemme a Roma, nel 1223, dal cardinale Giovanni Colonna. “ Perché la colonna della flagellazione di Gesù, venerata in epoca antichissima nella chiesa degli apostoli sul monte Sion a Gerusalemme, era il suo stemma araldico come dimostra lo stesso cognome del cardinale (cardinale Colonna, N.d.A.). E poiché questa colonna gli stava particolarmente a cuore, non la fece portare nella basilica di San Pietro, ma la collocò nella chiesa di cui era titolare, l’antica basilica di Santa Prassede sul colle Esquilino”.
Secondo il parere di numerosi studiosi della Sindone, la colonna di Santa Prassede sarebbe compatibile con i segni della flagellazione presenti sul lino torinese: infatti, l’analisi della loro posizione tenderebbe a suggerire la possibilità che il corpo dell’uomo avvolto nel sudario fosse piegato quando era colpito dai tortores, schiavi preparati in un’apposita scuola, oppure soldati comandati a questo particolare incarico, che generalmente operavamo in coppia.
Collin de Plancy scriveva che a Gerusalemme si conservavano addirittura due colonne della flagellazione e considerevoli pezzi erano venerati a Padova, Assisi, Toledo, nell’abbazia di La Celle, presso Troyes, dove vi erano conservate anche le verghe che servirono a flagellare Gesù Cristo. (J.A.S Collin de Plancey, op.cit.p.126).
La colonna misura 63 cm. con diametro di 20 cm. che si riduce a 13 cm. nella parte centrale.  E’ stata realizzata con quarzo-diorite egiziano, è danneggiata nella parte superiore e inferiore e presenta al centro della sommità traccia dell’infissione di un anello di ferro.
Il danneggiamento è da attribuire al prelevamento di frammenti da inviare ad altre chiese, secondo il modus operandi piuttosto diffuso nel passato, uno di questi frammenti è qui conservato nel museo del Santuario di S. Gemma a Lucca.

Il pezzo della Colonna della Flagellazione conservato a Lucca nel Monastero di S.Gemma 










venerdì 2 febbraio 2018

Scoperto in Liguria nel paese di Riva Ligure (Im) un caso di Eptadattilia in una tela del pittore Jacopo Rodi: Gesù Bambino con sette dita!

In varie occasioni  e grazie alle ricerche ed ai lavori di diversi studiosi ed autori, ci siamo occupati di casi di Esadattilia (sei dita nelle mani o nei piedi) presenti in opere d’arte sia famosissime che sconosciute al grande pubblico. Sono state sviscerate e dibattute numerose ipotesi  e teorie sui motivi che spinsero gli artisti a realizzare queste apparenti anomalie. Discussioni e analisi che hanno suscitato curiosità, interesse e pure (in alcuni casi) una certa inquietudine.  Soprattutto perchè nella stragrande maggioranza dei casi, l’Esadattilia riguarda personaggi della storia sacra, se non addirittura Gesù stesso.
Quindi se l’Esadattilia può aver sconvolto qualcuno, chissà cosa succederà ora che presentiamo, IN ESCLUSIVA, un articolo dell’architetto Giancarlo Marovelli, in cui presenta una sua recentissima e incredibile scoperta. IL PRIMO CASO (per quanto se ne sa) DI EPTADATTILIA. Ovvero un Gesù Bambino con SETTE DITA NELLA MANO SINISTRA!! 
Pubblicato sul sito il Punto sul mistero. www.ilpuntosulmistero.it

Un Po’di storia
Riva Ligure (Im) ridente cittadina posta a pochi km. da Sanremo racchiude nell’oratorio di San Giovanni Battista, un tesoro unico e raro, un quadro del pittore Jacopo Rodi di Montalto, dove è stata rilevato una incredibile anomalia l’eptidattilia. L’area fin dall’antichità  è stata un importante centro archeologico, oltre al sito del monte Grange, ricco di reperti paleo storici, è ormai celebre l’area degli scavi di Capo Don. Gli studiosi hanno identificato questo luogo con il centro di Costa Balenae, ricordato da carte e itinerari di epoca romana. Costa Balenae poteva essere un centro di appoggio alla viabilità imperiale romana lungo la costa ligure, vicino all’approdo fluviale del torrente Argentina. Questo insediamento, detto di Costa Balenae, giunge fino all’alto Medioevo, con la presenza di una grande chiesa, di un fonte battesimale e di molte sepolture. La sua fine è ancora misteriosa e si confonde con la storia una leggenda che vuole il fondo Porciano, di origine romana e corrispondente alla zona a ridosso della Riva, donato dall’esattore del fisco Gallione addirittura a San Siro, vescovo di Genova.
Dal 1029 e con la donazione della marchesa Adelaide di Susa nel 1049, compare sulla scena il monastero benedettino di Santo Stefano di Genova, che nel corso del tempo amplia i suoi diritti spirituali e materiali su di un ampio territorio che va dalla zona dell’attuale Santo Stefano al Mare fino al fossato dei Casai, per poco ancora entro l’attuale Comune di Riva Ligure. L’intera zona viene detta “Villaregia” e messa a coltura con seminativi (cerali e ortaggi) e soprattutto grandi vigne. I frati si scontrano più volte con i poteri signorili vicini, come i Clavesana, signori di Taggia fino al 1228 e soprattutto come i Lengueglia, che rivendicano diritti sui centri di Cipressa e Terzorio nonché la riscossione di tasse ecclesiastiche su molti abitati, fin dal 1153.
L’abate di Santo Stefano promuove la prima carta statutaria della Liguria occidentale già nel 1217. Nel 1277 sarà la volta degli statuti per Cipressa e Terzorio. Nel frattempo i Cistercensi si erano insediati sopra il capo Don, in territorio allora taggese: davano così origine alla fattoria del monte Grange. Nel corso del XIV secolo diminuisce la forza di governo del monastero: la popolazione si compatta lungo la costa e nascono compiutamente gli abitati della Riva, verso la chiesa antica di San Maurizio e di Santo Stefano. Rappresentanti della famiglia Doria s’inseriscono nel controllo del potere locale. Il convento non può far fronte ai prestiti contratti e nel 1353 Nicolò Doria ottiene il territorio di Villaregia, che viene immediatamente ceduto al Comune di Genova. L’abitato di Riva entra così a far parte della podesteria di Taggia. Riva, nota allora come “Riva di Taggia”, diventa lo scalo marittimo principale della città capoluogo, con l’attività di marinai, cantieri navali, fabbricanti di botti. La seconda metà del XVI secolo è rovinosa: l’abitato viene quasi del tutto abbandonato e lo scalo marittimo rimane quasi del tutto inutilizzato. Ne sono causa le incursioni dei pirati barbareschi: ben cinque dal 1551 al 1562, con un gran numero di sequestri di abitanti e la distruzione di molte case. Il pericolo diminuisce dopo la sconfitta musulmana a Lepanto (1571) e con la costruzione della fortezza difensiva.
Nel frattempo, i rapporti con Taggia non erano sempre sereni. Riva ha pure tentato di rendersi autonoma, soprattutto all’inizio del XVIII secolo. Il Settecento è stato un periodo di grande sviluppo, legato alle fortune agricole e commerciali. In quel tempo viene costruita la nuova ed imponente chiesa parrocchiale. Ricche famiglie taggesi, come i Lombardi, stabiliscono la residenza di campagna a Riva: nel loro palazzo, ora comunale, viene ospitata Elisabetta Farnese, promessa sposa a Filippo IV di Spagna, nell’anno 1714. La vita rivese è in perfetto equilibro con la Natura, tra mare e compagna. Ancora all’inizio del XX secolo ci sono confronti territoriali con Taggia: Riva è ormai comune autonomo, nel Regno d’Italia. Il secondo dopoguerra segna la grande espansione abitativa, con un settore floricolo in grande crescita e la richiesta di edilizia per le vacanze al mare.
(Cit.Nota storica Comune di Riva Ligure Alessandro Giacobbe).

L’oratorio
L’oratorio di san Giovanni Battista risale al XVII secolo,  si trova nel centro storico di Riva Ligure, in via Nino Bixio, la facciata è arretrata rispetto i prospetti edilizi permettendo l’inserimento di un piccolo sagrato di selciato a “rissoli”. Il culto e la devozione in Liguria a san Giovanni Battista risalgono ai primi secoli del cristianesimo ed ha massima diffusione dopo il 1099 quando i Genovesi si appropriano della reliquia delle ceneri del Santo, questo comporta una massima diffusione di chiese e oratori intitolati al Battista. La sua architettura di carattere semplice consta di una facciata rettilinea rifinita a intonaco con un unico portale di accesso con soprastante finestra a tre luci separate (serliana). L’interno è a navata unica, coperto con una volta a botte ribassata e lunette unghiate, il presbiterio voltato a botte lunettata con terminazione rettilinea.
Nell’altare laterale è inserita in un’incorniciatura in stucco settecentesca, una bellissima tela attribuita alla mano del pittore Jacopo Rodi di Montalto che rappresenta la “Natività della Vergine tra i santi Carlo Borromeo e Francesco“.
In questa tela ho evidenziato un’ anomalia nella mano sinistra di Gesù infante, la presenza di sette dita, questo rappresenta un caso unico e raro.

Sono stati già scoperti casi nel passato di esadattilia ma mai di eptadattilia. Troviamo questo fenomeno nell’affresco di Casa Santi, nella casa natale di Raffaello, oppure ad Acuto in Ciociaria, nelle chiese in Val Brembana dove alcuni studiosi tra cui Giuseppe Ciaghi, esperto d’arte di Carisolo, ha ricordato:” che Massimo Centini nel libro “I segni delle Alpi: simboli, credenze, religiosità, miti e luoghi della montagna” ha scritto che  “Secondo una diffusa tradizione popolare chiunque nasca con più di cinque dita sarà molto fortunato e otterrà sempre degli ottimi risultati in qualunque campo si applicherà, nel bene o nel male…”
Se analizziamo la tela e in particolare la mano di Gesù occorre rilevare il messaggio dato dalla mano stessa che poi si lega con l’eptadattilia. La mano nel suo contesto può uccidere o far vivere, distruggere o benedire. La Bibbia parla spesso della mano di Dio come simbolo del Suo agire in favore dell’uomo: con la Sua mano Dio libera il popolo d’Israele dalla schiavitù del Faraone (Esodo 3: 20) e sparge ogni bene sugli esseri viventi (Salmo 104: 28). La mano di Gesù rende visibile, concreta, verificabile quest’opera di Dio.
Gesù rappresenta «la mano che Dio tende ai peccatori». La Scrittura sembra dare per scontato che Dio abbia “mani”, quando dice che “forma, plasma” l’uomo dalla polvere della terra (Genesi 2:7). Osservando Gesù, noi sappiamo che cosa fanno le mani di Dio. Che cosa fa quando i nostri occhi non riescono a vedere, quando le nostre orecchie non riescono a sentire, quando i nostri piedi non riescono a camminare? Gesù, la mano di Dio, ce lo ha rivelato. Le dita di Dio significano anche i santi profeti, per mezzo dei quali lo Spirito Santo con la sua ispirazione traccia i libri della legge e della profezia; di ciò si parla nel salmo: Vedrò i cieli, opera delle tue dita (Sal.8,4).
L’eptadattilia rende unico e misterico il messaggio nascosto nella tela: il numero delle dita di Gesù esattamente sette; il significato è dato dal settimo giorno quando tutto fu compiuto, il Signore si riposò (Gn.2,2). Questo numero, rappresenta per la natura umana la massima perfezione, il giubileo della pace perfetta che si compone di sette settimane. Ma anche i sette spiriti al cospetto del trono di Dio (Ap.1,4), e i sette pani con cui Cristo saziò quattromila persone (Mt.15,34) significa la settiforme grazia dello Spirito Santo. Se sommiamo le dita delle mani di Gesù otteniamo il numero dodici,  gli Apostoli, nel Vangelo: questi sono i nomi dei dodici apostoli (Mt.10,2). Questo numero indica anche la moltitudine di quanti giudicheranno insieme al Signore, il tutto   ( Mt.19,28). Infine è manifestazione delle sette virtù del Cristianesimo: fede, speranza, carità, fortezza, giustizia, prudenza, temperanza.
Se vediamo il numero sette come retaggio di una cosmologia alchemica, ormai sepolta dalle attuali nuove scoperte dei vari pianeti. Rimaniamo affascinati di come le sette dita potevano anche rappresentare i sette corpi celesti erranti, chiaramente visibili e a tali pianeti erano associati i giorni della settimana. Nell’antichità anche i sette metalli noti erano messi in correlazione con i pianeti e i loro composti associati con i colori.
Nell’alfabeto ebraico corrisponde allo Zain, il numero perfetto dell’uomo androgino ermetico, essere perfettamente realizzato simbolo di vita eterna. L’Apocalisse di Giovanni fa riferimento molte volte al numero sette, è il simbolo della totalità  e si parla dei sette spiriti riposanti sulla radice di Jesse, del candeliere a sette braccia; alle sette chiese, sette sigilli, sette trombe, sette flagelli, sette coppe. Per Sant’Agostino era la totalità biblica.
La mano destra di Gesù con le sue cinque dita invece rappresenta per i pitagorici il numero nuziale di equilibrio e armonia, pura perfezione, ordine, volontà divina che desidera l’ordine e la perfezione. E’ il numero delle ierogamie, il matrimonio del principio celeste con quello terrestre, i cinque pianeti erranti. Vinee menzionato nell’Apocalisse (Ap.9,5-10) e in Matteo 14,7:”non abbiamo che cinque pani”. Corrisponde alla lettera ebraica HE lettera doppia nel Tetragrammaton di cui la HE’ è la prima lettera, splendore della Schekhina, la seconda He’:luce creata, stella fiammeggiante. Altresì richiama il sacrificio sulla Croce del Cristo, L’Agnello di Dio e le sue cinque piaghe.
La sommatoria delle dita delle due mani di Gesù da dodici, numero collegato ai segni dello Zodiaco e si riferisce al settenario, l’unione del ternario con il quaternario; dodici erano gli apostoli (Mt.10,2), dodici era il ciclo liturgico dell’anno composto da dodici mesi espresso nello zodiaco, ma indica anche la moltitudine di quanti giudicheranno il tutto (Mt.19,28). Nella Bibbia il 12 è la cifra dell’elezione della Chiesa con l’esoterismo e mistero del Graal racchiuso nella tavola rotonda del re Artù e dei suoi dodici cavalieri.
Resta da considerare alla luce del variegato significato simbolico racchiuso nel dipinto di Jacopo Rodi di Montalto, a quale ristretta fascia di persone era mirato il messaggio unico e misterico della mano di eptadattila di Gesù; nel quadro della natività di Gesù, evento che ha racchiuso sempre messaggi forti esoterici, in numerosi grandi artisti del passato in particolare Leonardo da Vinci insegna:” la pittura considera lo spirito attraverso il movimento dei corpi”. In molte natività troviamo evidenziata la mano di Gesù e il suo dito sulla bocca mentre contempla sua madre Maria, nel nostro caso il linguaggio dattilogico non è più rivolto a sua madre Maria, dove con il gesto del dito sulla bocca lancia un messaggio chiaro: che la mia vita rimanga nascosta per un certo tempo, non rivelate la mia divinità prima del tempo, ma la mano apre verso S.Francesco e contempla la trasmissione del sapere e i suoi misteri. Nella tela l’artista lancia un messaggio forte, iniziatico, che passa dal sigalion dei Greci, all’epifania della Nascita di Gesù, con i suoi iniziatici messaggi trasfusi a San Francesco, il simbolo del linguaggio che gli uomini devono tenere a Dio.
(Giancarlo Marovelli)






(Nelle foto della tela di Jacopo Rodi si nota Gesù Bambino che allunga il braccio sinistro e sulla manina si vedono senza ombra di dubbio ben sette dita!)