Labirinto

lunedì 19 febbraio 2018

Un pezzo della colonna della flagellazione a Lucca


La colonna della Flagellazione a S.Prassede a Roma 
La reliquia più importante legata alla flagellazione è costituita dalla colonna conservata nella chiesa di Santa Prassede a Roma: posta all’interno di un’edicola di bronzo risalente alla fine del XIX secolo, fu trasferita da Gerusalemme a Roma, nel 1223, dal cardinale Giovanni Colonna. “ Perché la colonna della flagellazione di Gesù, venerata in epoca antichissima nella chiesa degli apostoli sul monte Sion a Gerusalemme, era il suo stemma araldico come dimostra lo stesso cognome del cardinale (cardinale Colonna, N.d.A.). E poiché questa colonna gli stava particolarmente a cuore, non la fece portare nella basilica di San Pietro, ma la collocò nella chiesa di cui era titolare, l’antica basilica di Santa Prassede sul colle Esquilino”.
Secondo il parere di numerosi studiosi della Sindone, la colonna di Santa Prassede sarebbe compatibile con i segni della flagellazione presenti sul lino torinese: infatti, l’analisi della loro posizione tenderebbe a suggerire la possibilità che il corpo dell’uomo avvolto nel sudario fosse piegato quando era colpito dai tortores, schiavi preparati in un’apposita scuola, oppure soldati comandati a questo particolare incarico, che generalmente operavamo in coppia.
Collin de Plancy scriveva che a Gerusalemme si conservavano addirittura due colonne della flagellazione e considerevoli pezzi erano venerati a Padova, Assisi, Toledo, nell’abbazia di La Celle, presso Troyes, dove vi erano conservate anche le verghe che servirono a flagellare Gesù Cristo. (J.A.S Collin de Plancey, op.cit.p.126).
La colonna misura 63 cm. con diametro di 20 cm. che si riduce a 13 cm. nella parte centrale.  E’ stata realizzata con quarzo-diorite egiziano, è danneggiata nella parte superiore e inferiore e presenta al centro della sommità traccia dell’infissione di un anello di ferro.
Il danneggiamento è da attribuire al prelevamento di frammenti da inviare ad altre chiese, secondo il modus operandi piuttosto diffuso nel passato, uno di questi frammenti è qui conservato nel museo del Santuario di S. Gemma a Lucca.

Il pezzo della Colonna della Flagellazione conservato a Lucca nel Monastero di S.Gemma 










venerdì 2 febbraio 2018

Scoperto in Liguria nel paese di Riva Ligure (Im) un caso di Eptadattilia in una tela del pittore Jacopo Rodi: Gesù Bambino con sette dita!

In varie occasioni  e grazie alle ricerche ed ai lavori di diversi studiosi ed autori, ci siamo occupati di casi di Esadattilia (sei dita nelle mani o nei piedi) presenti in opere d’arte sia famosissime che sconosciute al grande pubblico. Sono state sviscerate e dibattute numerose ipotesi  e teorie sui motivi che spinsero gli artisti a realizzare queste apparenti anomalie. Discussioni e analisi che hanno suscitato curiosità, interesse e pure (in alcuni casi) una certa inquietudine.  Soprattutto perchè nella stragrande maggioranza dei casi, l’Esadattilia riguarda personaggi della storia sacra, se non addirittura Gesù stesso.
Quindi se l’Esadattilia può aver sconvolto qualcuno, chissà cosa succederà ora che presentiamo, IN ESCLUSIVA, un articolo dell’architetto Giancarlo Marovelli, in cui presenta una sua recentissima e incredibile scoperta. IL PRIMO CASO (per quanto se ne sa) DI EPTADATTILIA. Ovvero un Gesù Bambino con SETTE DITA NELLA MANO SINISTRA!! 
Pubblicato sul sito il Punto sul mistero. www.ilpuntosulmistero.it

Un Po’di storia
Riva Ligure (Im) ridente cittadina posta a pochi km. da Sanremo racchiude nell’oratorio di San Giovanni Battista, un tesoro unico e raro, un quadro del pittore Jacopo Rodi di Montalto, dove è stata rilevato una incredibile anomalia l’eptidattilia. L’area fin dall’antichità  è stata un importante centro archeologico, oltre al sito del monte Grange, ricco di reperti paleo storici, è ormai celebre l’area degli scavi di Capo Don. Gli studiosi hanno identificato questo luogo con il centro di Costa Balenae, ricordato da carte e itinerari di epoca romana. Costa Balenae poteva essere un centro di appoggio alla viabilità imperiale romana lungo la costa ligure, vicino all’approdo fluviale del torrente Argentina. Questo insediamento, detto di Costa Balenae, giunge fino all’alto Medioevo, con la presenza di una grande chiesa, di un fonte battesimale e di molte sepolture. La sua fine è ancora misteriosa e si confonde con la storia una leggenda che vuole il fondo Porciano, di origine romana e corrispondente alla zona a ridosso della Riva, donato dall’esattore del fisco Gallione addirittura a San Siro, vescovo di Genova.
Dal 1029 e con la donazione della marchesa Adelaide di Susa nel 1049, compare sulla scena il monastero benedettino di Santo Stefano di Genova, che nel corso del tempo amplia i suoi diritti spirituali e materiali su di un ampio territorio che va dalla zona dell’attuale Santo Stefano al Mare fino al fossato dei Casai, per poco ancora entro l’attuale Comune di Riva Ligure. L’intera zona viene detta “Villaregia” e messa a coltura con seminativi (cerali e ortaggi) e soprattutto grandi vigne. I frati si scontrano più volte con i poteri signorili vicini, come i Clavesana, signori di Taggia fino al 1228 e soprattutto come i Lengueglia, che rivendicano diritti sui centri di Cipressa e Terzorio nonché la riscossione di tasse ecclesiastiche su molti abitati, fin dal 1153.
L’abate di Santo Stefano promuove la prima carta statutaria della Liguria occidentale già nel 1217. Nel 1277 sarà la volta degli statuti per Cipressa e Terzorio. Nel frattempo i Cistercensi si erano insediati sopra il capo Don, in territorio allora taggese: davano così origine alla fattoria del monte Grange. Nel corso del XIV secolo diminuisce la forza di governo del monastero: la popolazione si compatta lungo la costa e nascono compiutamente gli abitati della Riva, verso la chiesa antica di San Maurizio e di Santo Stefano. Rappresentanti della famiglia Doria s’inseriscono nel controllo del potere locale. Il convento non può far fronte ai prestiti contratti e nel 1353 Nicolò Doria ottiene il territorio di Villaregia, che viene immediatamente ceduto al Comune di Genova. L’abitato di Riva entra così a far parte della podesteria di Taggia. Riva, nota allora come “Riva di Taggia”, diventa lo scalo marittimo principale della città capoluogo, con l’attività di marinai, cantieri navali, fabbricanti di botti. La seconda metà del XVI secolo è rovinosa: l’abitato viene quasi del tutto abbandonato e lo scalo marittimo rimane quasi del tutto inutilizzato. Ne sono causa le incursioni dei pirati barbareschi: ben cinque dal 1551 al 1562, con un gran numero di sequestri di abitanti e la distruzione di molte case. Il pericolo diminuisce dopo la sconfitta musulmana a Lepanto (1571) e con la costruzione della fortezza difensiva.
Nel frattempo, i rapporti con Taggia non erano sempre sereni. Riva ha pure tentato di rendersi autonoma, soprattutto all’inizio del XVIII secolo. Il Settecento è stato un periodo di grande sviluppo, legato alle fortune agricole e commerciali. In quel tempo viene costruita la nuova ed imponente chiesa parrocchiale. Ricche famiglie taggesi, come i Lombardi, stabiliscono la residenza di campagna a Riva: nel loro palazzo, ora comunale, viene ospitata Elisabetta Farnese, promessa sposa a Filippo IV di Spagna, nell’anno 1714. La vita rivese è in perfetto equilibro con la Natura, tra mare e compagna. Ancora all’inizio del XX secolo ci sono confronti territoriali con Taggia: Riva è ormai comune autonomo, nel Regno d’Italia. Il secondo dopoguerra segna la grande espansione abitativa, con un settore floricolo in grande crescita e la richiesta di edilizia per le vacanze al mare.
(Cit.Nota storica Comune di Riva Ligure Alessandro Giacobbe).

L’oratorio
L’oratorio di san Giovanni Battista risale al XVII secolo,  si trova nel centro storico di Riva Ligure, in via Nino Bixio, la facciata è arretrata rispetto i prospetti edilizi permettendo l’inserimento di un piccolo sagrato di selciato a “rissoli”. Il culto e la devozione in Liguria a san Giovanni Battista risalgono ai primi secoli del cristianesimo ed ha massima diffusione dopo il 1099 quando i Genovesi si appropriano della reliquia delle ceneri del Santo, questo comporta una massima diffusione di chiese e oratori intitolati al Battista. La sua architettura di carattere semplice consta di una facciata rettilinea rifinita a intonaco con un unico portale di accesso con soprastante finestra a tre luci separate (serliana). L’interno è a navata unica, coperto con una volta a botte ribassata e lunette unghiate, il presbiterio voltato a botte lunettata con terminazione rettilinea.
Nell’altare laterale è inserita in un’incorniciatura in stucco settecentesca, una bellissima tela attribuita alla mano del pittore Jacopo Rodi di Montalto che rappresenta la “Natività della Vergine tra i santi Carlo Borromeo e Francesco“.
In questa tela ho evidenziato un’ anomalia nella mano sinistra di Gesù infante, la presenza di sette dita, questo rappresenta un caso unico e raro.

Sono stati già scoperti casi nel passato di esadattilia ma mai di eptadattilia. Troviamo questo fenomeno nell’affresco di Casa Santi, nella casa natale di Raffaello, oppure ad Acuto in Ciociaria, nelle chiese in Val Brembana dove alcuni studiosi tra cui Giuseppe Ciaghi, esperto d’arte di Carisolo, ha ricordato:” che Massimo Centini nel libro “I segni delle Alpi: simboli, credenze, religiosità, miti e luoghi della montagna” ha scritto che  “Secondo una diffusa tradizione popolare chiunque nasca con più di cinque dita sarà molto fortunato e otterrà sempre degli ottimi risultati in qualunque campo si applicherà, nel bene o nel male…”
Se analizziamo la tela e in particolare la mano di Gesù occorre rilevare il messaggio dato dalla mano stessa che poi si lega con l’eptadattilia. La mano nel suo contesto può uccidere o far vivere, distruggere o benedire. La Bibbia parla spesso della mano di Dio come simbolo del Suo agire in favore dell’uomo: con la Sua mano Dio libera il popolo d’Israele dalla schiavitù del Faraone (Esodo 3: 20) e sparge ogni bene sugli esseri viventi (Salmo 104: 28). La mano di Gesù rende visibile, concreta, verificabile quest’opera di Dio.
Gesù rappresenta «la mano che Dio tende ai peccatori». La Scrittura sembra dare per scontato che Dio abbia “mani”, quando dice che “forma, plasma” l’uomo dalla polvere della terra (Genesi 2:7). Osservando Gesù, noi sappiamo che cosa fanno le mani di Dio. Che cosa fa quando i nostri occhi non riescono a vedere, quando le nostre orecchie non riescono a sentire, quando i nostri piedi non riescono a camminare? Gesù, la mano di Dio, ce lo ha rivelato. Le dita di Dio significano anche i santi profeti, per mezzo dei quali lo Spirito Santo con la sua ispirazione traccia i libri della legge e della profezia; di ciò si parla nel salmo: Vedrò i cieli, opera delle tue dita (Sal.8,4).
L’eptadattilia rende unico e misterico il messaggio nascosto nella tela: il numero delle dita di Gesù esattamente sette; il significato è dato dal settimo giorno quando tutto fu compiuto, il Signore si riposò (Gn.2,2). Questo numero, rappresenta per la natura umana la massima perfezione, il giubileo della pace perfetta che si compone di sette settimane. Ma anche i sette spiriti al cospetto del trono di Dio (Ap.1,4), e i sette pani con cui Cristo saziò quattromila persone (Mt.15,34) significa la settiforme grazia dello Spirito Santo. Se sommiamo le dita delle mani di Gesù otteniamo il numero dodici,  gli Apostoli, nel Vangelo: questi sono i nomi dei dodici apostoli (Mt.10,2). Questo numero indica anche la moltitudine di quanti giudicheranno insieme al Signore, il tutto   ( Mt.19,28). Infine è manifestazione delle sette virtù del Cristianesimo: fede, speranza, carità, fortezza, giustizia, prudenza, temperanza.
Se vediamo il numero sette come retaggio di una cosmologia alchemica, ormai sepolta dalle attuali nuove scoperte dei vari pianeti. Rimaniamo affascinati di come le sette dita potevano anche rappresentare i sette corpi celesti erranti, chiaramente visibili e a tali pianeti erano associati i giorni della settimana. Nell’antichità anche i sette metalli noti erano messi in correlazione con i pianeti e i loro composti associati con i colori.
Nell’alfabeto ebraico corrisponde allo Zain, il numero perfetto dell’uomo androgino ermetico, essere perfettamente realizzato simbolo di vita eterna. L’Apocalisse di Giovanni fa riferimento molte volte al numero sette, è il simbolo della totalità  e si parla dei sette spiriti riposanti sulla radice di Jesse, del candeliere a sette braccia; alle sette chiese, sette sigilli, sette trombe, sette flagelli, sette coppe. Per Sant’Agostino era la totalità biblica.
La mano destra di Gesù con le sue cinque dita invece rappresenta per i pitagorici il numero nuziale di equilibrio e armonia, pura perfezione, ordine, volontà divina che desidera l’ordine e la perfezione. E’ il numero delle ierogamie, il matrimonio del principio celeste con quello terrestre, i cinque pianeti erranti. Vinee menzionato nell’Apocalisse (Ap.9,5-10) e in Matteo 14,7:”non abbiamo che cinque pani”. Corrisponde alla lettera ebraica HE lettera doppia nel Tetragrammaton di cui la HE’ è la prima lettera, splendore della Schekhina, la seconda He’:luce creata, stella fiammeggiante. Altresì richiama il sacrificio sulla Croce del Cristo, L’Agnello di Dio e le sue cinque piaghe.
La sommatoria delle dita delle due mani di Gesù da dodici, numero collegato ai segni dello Zodiaco e si riferisce al settenario, l’unione del ternario con il quaternario; dodici erano gli apostoli (Mt.10,2), dodici era il ciclo liturgico dell’anno composto da dodici mesi espresso nello zodiaco, ma indica anche la moltitudine di quanti giudicheranno il tutto (Mt.19,28). Nella Bibbia il 12 è la cifra dell’elezione della Chiesa con l’esoterismo e mistero del Graal racchiuso nella tavola rotonda del re Artù e dei suoi dodici cavalieri.
Resta da considerare alla luce del variegato significato simbolico racchiuso nel dipinto di Jacopo Rodi di Montalto, a quale ristretta fascia di persone era mirato il messaggio unico e misterico della mano di eptadattila di Gesù; nel quadro della natività di Gesù, evento che ha racchiuso sempre messaggi forti esoterici, in numerosi grandi artisti del passato in particolare Leonardo da Vinci insegna:” la pittura considera lo spirito attraverso il movimento dei corpi”. In molte natività troviamo evidenziata la mano di Gesù e il suo dito sulla bocca mentre contempla sua madre Maria, nel nostro caso il linguaggio dattilogico non è più rivolto a sua madre Maria, dove con il gesto del dito sulla bocca lancia un messaggio chiaro: che la mia vita rimanga nascosta per un certo tempo, non rivelate la mia divinità prima del tempo, ma la mano apre verso S.Francesco e contempla la trasmissione del sapere e i suoi misteri. Nella tela l’artista lancia un messaggio forte, iniziatico, che passa dal sigalion dei Greci, all’epifania della Nascita di Gesù, con i suoi iniziatici messaggi trasfusi a San Francesco, il simbolo del linguaggio che gli uomini devono tenere a Dio.
(Giancarlo Marovelli)






(Nelle foto della tela di Jacopo Rodi si nota Gesù Bambino che allunga il braccio sinistro e sulla manina si vedono senza ombra di dubbio ben sette dita!)



Il passaggio delle corporazioni:analisi di uno scudo in pietra a Barga (Lu)



Nell' Europa medievale si chiamavano corporazioni le associazioni di tutti coloro che in una determinata città esercitavano lo stesso mestiere, ad esempio i mercanti, i banchieri, i notai, i fabbri, i calzolai e i costruttori. Queste corporazioni conobbero il loro maggiore sviluppo tra Duecento e Trecento e andarono declinando e poi scomparendo tra Seicento e Settecento. In Italia, nel Medioevo, queste corporazioni si chiamavamo prevalentemente Arti o Mestieri, nei paesi di lingua germanica Gilde.
Se osserviamo i nostri centri storici possiamo a volte incontrare testimonianza del passaggio e dell’opera di queste corporazioni; nel nostro caso a Barga, in Via del Giardino al n.99, nella traversa che va a palazzo Baiocchi, è stato rinvenuto in un angolo di un vecchio fabbricato uno stemma murato a rovescio che rappresenta l'insegna di una corporazione che ha operato a Barga. Le notizie che abbiamo sul castrum di Barga sono di difficile interpretazione e i pochi documenti pervenuti a oggi ci danno informazioni su un originario nucleo fortificato intorno al Duomo, legato al culto di San Cristoforo.
Questo luogo, nei secoli conteso da Lucchesi, Pisani e Fiorentini, divenne un rinomato centro per lo scambio delle merci provenienti da Coreglia, dal modenese e dalla Garfagnana. Dopo la morte di Castruccio Castracani, avvenuta il 3 settembre 1328, i Barghigiani si dichiararono il 31 gennaio 1331 sudditi di Firenze, nel momento storico in cui la potenza di Lucca andava repentinamente sgretolandosi.
La città di Lucca dopo la scomparsa di Castruccio venne più volte venduta e comprata; nel 1341 i Fiorentini la acquistarono per 100 mila fiorini d'oro. Non appena i Pisani appresero che i Fiorentini avevano acquistato Lucca, sicuri di essere indeboliti da quell'ingrandimento territoriale, il 1 agosto 1341 la occuparono prima ancora che i Fiorentini ne prendessero possesso. In seguito i Pisani incorporarono le Vicarie di Coreglia e Castiglione, ma non riuscirono mai a sottomettere Barga, grazie anche alla sua posizione e alle opere difensive.
Dopo tali avvenimenti Barga godette di un lungo periodo di pace, migliorando le proprie condizioni economiche ed intensificando il commercio. La popolazione crebbe di numero, si costruirono nuove case e la vita del castello, svoltasi fino allora intorno al Duomo, si andò a poco a poco spostando verso valle, attorno a quella piazza che, in onore di Firenze, fu chiamata di Santa Maria Novella, divenuta in seguito Piazza Pietro Angeli.
In questo periodo mercanti, pittori e costruttori orbitarono a Barga arricchendo il luogo di opere: lo stemma trovato nell’angolo del fabbricato ci fornisce una traccia sostanziale della presenza di personale altamente qualificato che operò sicuramente negli interventi intorno alle mura di Barga. Ciò è evidenziato dalla presenza dei tre rettangoli all’interno del campo dello scudo; tali rettangoli rappresentano il plinto,  questo simbolo è collegato alla costruzione delle torri e dei castelli feudali,  e richiama anche le feritoie per le quali passavano le balestre. Il numero tre rappresenta: la matrice di perfezione che richiama la Genesi (40,10); i tre tralci intesi come forza e virtù; Virgilio cantò “Numero Deus imparate gaudet” (“Il Dio si compiace del numero dispari”).
Se analizziamo il lavoro dell'araldista Goffredo di Crollalanza, nella sua “Enciclopedia Araldico-cavalleresca” il numero tre viene collegato ai tre pilastri simboleggianti la costanza, dote unica di coloro che dedicavano il tempo alla costruzione di mura e fortezze.
Arch.Giancarlo Marovelli